Non avendo talento alcuno, né alcuna ambizione, né motivo ragionevole per desiderarli al momento entrambe - poiché l'antagonista che la mia incoscienza aveva scelto mi era amico-, fu indubbiamente il caso a farmi incontrare al mercato la mia capitale occasione.
Il caso fu complice del caso, o io di me stesso, in questa storia il cui protagonista si presentò col sembiante di un elementare intrico di asticelle che un venditore ambulante offriva all’inabilità per il disegno manuale.
“L’arte è facile”, andava ripetendo quell’imbonitore con una straordinaria qualità sonora nella voce. E intanto mostrava in giro l’oggetto con il quale aveva appena eseguito la perfetta copia a matita di una fotografia di Daniel Gélin, attore francese attivo in quegli anni anche da noi qui in Italia e a Cinecittà.
Qualche malsano istinto mi convinse all’acquisto; e l'esortazione ammiccante del venditore "Capito come si usa?", con troppa leggerezza ebbe da me risposta certa.
Fu appena vidi riprodurre senza sforzo quel volto sorridente con ostinata letizia che intravidi la trama delle falsificazioni che ben presto avrei ordito a spese degli amici, ma che altrettanto presto e più velocemente m'avrebbe messo nel sacco?
O avevo accuratamente riposta in una smarrita piega della mia natura la vocazione del bugiardo in paziente attesa dell'occasione per districarsi dal groviglio della sincerità e sferrare un mortale attacco alla rincoglionita ancella dell'arte: la spontaneità?
Non vi è né può aversi risposta certa. Eppoi gli eventi che seguirono hanno scavato così decisamente il proprio alveo che non è più possibile metterci mano.
Senza rimedio il trucco che tu escogiti per gli altri diventa per te trappola che lega l'anima e incatena ai suoi propri fini la tua coscienza. Tu lo intravedi come fantasmagoria e lui come tale ti affascina e irrimediabilmente afferra e travolge.
Io non esitai un istante a sacrificare ogni futuro di limpidezza ad una vanità che non m'appaga.
Il trucco fu mallevadore all'ambizione.
E l'ambizione mi corrose l'anima.
Entrato casualmente nel ballo - che ancora vado ballando in quest’aula e davanti a voi-, mi toccò patire la danza tutta contenuta in quella legnosa chiave di violino che a poco prezzo si era concessa sulla pubblica via.
Certamente il mercato corrompe.
Esso è il mondo senza oggetti; ossia il mondo in cui tutti gli oggetti trovano l’equivalenza nella quale scomparire. E di ogni cosa rimane solo la cifra del posto che occupa nella stima degli uomini.
Ma voi ora non pensate al mercato come un’astrazione economica, perché io acquistai la mia prima farsa di talento al mercato di Porta Portese.Quando comprate una capacità che agevolmente riuscite a contenere in una tasca non potete poi possederla che in modo farsesco. Non vi è però farsa nella corruzione, perché questa risiede proprio in tale modo di appropriarsi le cose del mondo, essendo tutta racchiusa precisamente nella distanza che corre tra il desiderio e la tasca, che del desiderio è zavorra reale, essendone conto e misura. Ciò che corrompe, del mercato, non è dunque la forma e il variopinto aspetto, ma le relazioni a cui ti costringe essendone lui costretto.
Quanto ti offre o cede non diverrà mai tuo, poiché tu per primo gli appartieni; infatti con deferenza ti accoccola in eccellenza tra le merci, così che tu possa consumare te stesso come una febbre tropicale. Tale a un delirio che vorresti padroneggiare vieni afferrato e succhiato per accrescere e soddisfare il suo desiderio, non il tuo, che rimane sempre sospesa voglia.
Forse proprio per le sue basse qualità quell'arnese di legno sottomise la mia anima.
Uno verso l'altra quelle due miserie si erano andate cercando tra le mille cianfrusaglie della operosità sociale per dare inizio al travaso della mia natura umana in quell’oggetto che avrebbe fatto di me una derisione e un aborto tale che alle mamme verrebbe comodo segnalarmi al biasimo dei figlioli.
Vedete?
Prendo a commiserarmi e divago anch’io come un imbonitore che volentieri abbandona i caratteri dell'oggetto che pur mostra all'attenzione della piazza e passa senz'altro a vender la parola, che della merce è Verbo e Angelo Lucidatore.
Fatto l’acquisto fremevo di mettere a confronto l’utensile con la credulità degli amici, e quasi senza respiro raggiunsi la casa paterna (la chiamo così solo perché mio padre pagava l’affitto per quell’appartamento al numero tredici di via dell'Oca, la prima traversa a destra, venendo da piazza del Popolo, della via di Ripetta, in Roma).
L’oggetto che portavo in casa era costruito con semplici stanghette di legno unite tra loro da cavicchi per articolarsi in un parallelogramma mobile dai lati varabili e guarniti ai vertici da guglie ortogonali.
Un estremo dell’attrezzo fissato al piano di un tavolo consente il movimento sincronico di due guglie ortogonali. La guglia situata in posizione mediana si conclude con un erpice da tener d’occhio, mentre la guglia più esterna è fatta cava per ospitare una baionetta di grafite da impugnare e manovrare così che la punta secca dell’erpice possa ripassare su ogni singolo tratto dell’intero modello piano da duplicare sistemato al calcatoio che, grazie ad una leggera pressione della mano sulla grafite, verrà duplicato punto punto e tratto tratto fino a riprodurre l’intero modello come eseguito dall’abilità d’una mano libera armata da matita o lapis, ossia in una forma reputata artistica.
Per non destare sospetti quell’incrocio di legni, viti, cerniere e guglie capovolte si era lasciato avvicinare come un semplice attrezzo d’utilità o utensile. La sua richiesta della mano consentiva difatti questa collocazione nel catalogo delle voci del mondo. Ma ogni catalogo raccoglie solo gli oggetti alla portata, non oltre. Esso è l'elenco di ciò che poi si può riporre. E quando una cosa ha subito ripostazione diviene intoccabile allo stesso compilatore di cataloghi. Questo me lo insegnano pecorelle pasquali di zucchero e d'acqua che, protette da carte oleate, anno dopo anno e per decenni interi, occhieggiano dietro opacità di palmizi e cigni scorrevoli su binari di credenze laccate d'azzurro, intoccabili come in un tabernacolo. E tu che le hai riposte divieni loro spasso.
Da un catalogo per acquisti postali di biancheria intima (che mia madre di tanto in tanto consultava senza mai ordinare nulla) presi l’immagine stampata di una donna accovacciata su lucenti indumenti di seta, che subito fermai al calcatoio sotto la punta dell’erpice. Sistemato pure un foglio Fabriano sotto la grafite della guglia tracciante, mi misi all’opera.
Se in quel momento a qualcuno fosse stato concesso osservare la scena, avrebbe certamente esclamato: "Ecco la coppia perfida mettersi al lavoro".
Dietro le imposte socchiuse della camera da letto dei miei genitori procedevo accuratamente nel lavoro di riproduzione traendone un piacere così vigoroso da non poter essere che illecito.
Soltanto quando giudicai di aver ripassato per benino ogni forma e dettaglio della figura presa a modello mi fermai per esaminare l’esito.
E solo allora mi accorsi che i segni trasferiti con l’ausilio dall’attrezzo sul foglio Fabbriano non riuscivano a ricomporsi adeguatamente nell’insieme della figura originale. Solo prendendo le distanze e strizzando gli occhi si riusciva a intravedere il motivo di un corpo femminile - per niente eccitante, piuttosto caricaturale.
Malgrado la contrarietà, portai quel mio primo insufficiente disegno in giro per la via.
Impudentemente.
Vantandomene.
E tutti gli amici affermarono il mio talento d'artista - dando immeritato smacco all’ingenuo Remo: espressionista spontaneo d'introverso vigore e cupezza conviviale.
La lusinga di quel momento fu invece del tutto sufficiente a sigillare per sempre il mio spirito dentro quel talismano di legno.
Un certo Franco mi fu comunque complice in quelle prime striscianti esibizioni, delle quali poi ridevamo assieme nei retrobottega alimentando il vizio d’impostura all’assuefazione.
Ora lui intreccia canestri di vimini, da qualche parte, a Roma. Ma io, che volevo giocare con la buona fede degli amici, preparai il vortice nel quale mi spinsero per banchettare infine con la carcassa di un fallito.
In segreto arrossivo di quanto avevo fatto; e tuttavia mi chiedevo com’era possibile che l’apparato mettesse a rischio la tecnica stessa del disegnare generando riproduzioni così malsicure e dubbiose di sé stesse.
Forse la causa - riflettevo studiando l’attrezzo - era dovuta alla precisione affilata con la quale l’erpice vagliava e isolava le singole parti del modello; che però poi, trasferite sul foglio bianco, non riuscivano a ricostituirne l’unità. Ogni particolarità riprodotta si metteva sulle sue, quasi per bizza o sedizione.
Capovolto l'orizzontale in verticale inevitabilmente si snaturava il processo realizzativo del disegnare; perché la mano, quando libera disegna non deve pesare sul foglio ma, sospesa nell’aria e come in volo, scivola in andamenti paralleli al piano, non certo antagonisti al foglio. Si procede cioè in accordo con la superficie, con angolazioni variate opportunamente per non causare attrito da sfregamento o strofinio del dorso. Operando invece nel suo particolarissimo modo, il mio dispositivo calcava quel corpo di donna con cattiveria aguzza ripartendolo cioè brano a brano; e le membra così oltraggiate sembravano voler gridare al mondo l'anatema originario del trucco e della bugia, del mercimonio e della volgare pudicizia delle persiane.
Continuai ad esercitarmi utilizzando l’attrezzo per copiare immagini stampate in riviste o illustrazioni di libri di storia della pittura. Ma per quanto applicassi massima cura ed estrema attenzione per coordinare l’occhio con la mano, nei disegni credevo sempre di vedere la smorfia rivelatrice della fraudolenza tecnica.
Non arrivavo ancora a immaginare che solo per avviare la seduzione quell’attrezzo si era abbandonato tra le mani del venditore per prendere invece poi a ballare tra le mie.
Considerando che al mercato era stata mirabile la dimostrazione della capacità duplicatrice dell’attrezzo, preferivo credere ad un disturbo meccanico che per disdetta si era verificato solo dopo che il titolo di proprietà venne trasferito dall'imbonitore a me.
Sebbene la poltronaggine e vizi d'ambizione mi avessero spinto tra le braccia dell’attrezzo, fu poi proprio in virtù di questo se in seguito decisi di riprendermi la mano che avevo consegnato a quella mia risorsa segreta.
Maestrucolo in avvicinamento senza grucce, a quel tempo ritenevo che la strada per arrivare a molte cose in pittura fosse una conoscenza completa del corpo umano. E così per otto anni mi ostinai a disegnare figure classiche sparse in opprimenti aule stipate di polverosi calchi in gesso e tempere di pedante accademismo alle pareti.
Nel disegno e nella pittura a mano libera facevo dei progressi. Erano però sempre le rappresentazioni eseguite con l’ausilio dell’attrezzo ad essere apprezzati dagli amici e dagli occasionali; e questo solo fatto scoraggiava ad allontanarsi troppo da quel mulino delle vanità.
Può risultare imbarazzante non sapere se sia giusto maledire piuttosto che benedire un ente corruttore. Maledire il corruttore può apparire espressione e prassi banale e sterile; benedire i corruttori può al contrario sembrare manifestazione di pensiero ardito e saggezza laica, seppur sempre morale, ma solo per un contrarsi del linguaggio, giacché i corruttori da benedire possono ancora ritenersi tali se non per malizia retorica? Simili esitazioni o argomenti pasticciati, che via via mi si presentavano erano i primi colpi inferti alla mia innocenza, e preparavano la strada lungo la quale mi persi inseguendo le piatte immagini di miserevoli maestri decoratori.
Avrei dovuto semplicemente mandare tutto a farsi benedire.
Ma se un filisteo è una vescica vuota, gonfia di paura e speranza nella misericordia divina, io avevo trovato nell'apparecchiatura il Dio che mi enfiava. Era per me divenuta l’intricato mistero eucaristico di una teologia legnosa come di feticcio africano; carico d'aporie quale un bimbo d'Ara Coeli, inespugnabile alla ragione in ragione della sua ebetudine abietta.
La sua ostentata semplicità legnosa da croce o da forca - avrei dovuto chiedermi in tempo - era forse la più sottile maschera per nascondere scaltrezza di comportamenti e passioni poderose?
Quella chiarezza costruttiva - in altre parole - era un onesto mettersi a nudo oppure la più sapiente vestizione di una macchinazione che intanto pestava i piedi e scaldava i muscoli?
Mentre ogni volta io arrivavo a un punto morto e svanivo nel nulla, quell’attrezzo intanto guadagnava sempre più qualcosa d’infinito. >
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Per quanto il tempo e l’esercizio avessero accresciuto la mia perizia, e la coppia perfida riuscisse a volte a mettere al mondo la copia perfetta, tuttavia il più delle volte continuavo a scodellare dipinti e disegni nei quali i punti, le linee e i piani non riuscivano a correlarsi per formare unità del tutto convincenti della figura umana, del paesaggio, o altro motivo pittorico che avevo preso di mira.
Sui miei fogli pasticciati ogni segno sembrava deciso a liberarsi dalle somiglianze col modello; allora si metteva a farmi le smorfie come per dirmi: “La natura e gli uomini non mi riguardano affatto; a me compete solo la mia natura di segno e solo con tale natura voglio trattare.”
Sarebbe forse bastato ascoltare questi primi balbettii della modernità per godere fin d’allora della nuova pittura; ma impaludato com'ero nelle iconografie e nelle storie, rimanevo sordo alla cospirazione dei segni contro la descrizione del mondo.
Ogni volta di più sentivo l’intero congegno fremere sotto la mia presa, come se vi serpeggiasse uno spirito risentito della mano e degli occhi degli uomini.
Non meravigliatevi dunque se iniziavo ad avere qualche difficoltà a considerare quell’attrezza come un semplice prolungamento del mio braccio - piuttosto allora della mia anima, che a tentoni si era protesa oltre l'adolescenza, epperò con tutta la perfidia dell’infanzia.
Il mio spirito intanto arretrava davanti alla vacuità degli scopi lasciando spazio ai dispositivi delle sostituzioni già pronti a togliermi di mezzo.
Non passò molto altro tempo, infatti, prima che quella macina al collo prendesse ad insultarmi.
A volte la notte diventava sfrontata e sordida; e lercia attingeva da me come da una cisterna umana la flebo per le sue arterie.
Se la spassava, insomma, con chi non osava osteggiarla per timore di essere abbandonato.
Non avevo più lacrime, ma digrignavo i denti e all’intelaiatura stavo.
Studiando con estrema attenzione l’intero procedimento riproduttivo in ogni dettaglio e passaggio, ero arrivato a stabilire che la carica duplicatrice attinta al calcatoio, circolando poi per le aste pantografiche trovava però nella mia persona una resistenza che la frenava e ne alterava la capacità duplicativa o mimetica.
Per rimuovere la causa dell’attrito avrei dunque dovuto sostituirmi con una qualunque altra forza motrice e direttrice? E già dalle persiane socchiuse penetrava nella stanza il soffio freddo dell’indifferenza del mondo intero nei confronti della mia sorte.
Avrei voluto distruggere quell’essere che io stesso - in qualche modo a me ignoto - avevo creato.
Invece, tutti i turbamenti che l'apparecchiatura aveva fino allora suscitato nel mio animo, trovarono pian piano il modo di mutarmi in una sua viva e risonante coscienza che mi pregava fino alle lagrime di rimuovere al più presto ogni ostacolo sulla sua strada verso la libertà.
La compassione fu l'estrema debolezza che portò a compimento l'annientamento che mi era stato preparato fin da quel giorno di mercato nel quale la messa in vendita fu dunque una messa a morte.
Nella stanza incantata perdevo ogni vigore.
“Il mare è meno pericoloso di questo”, farneticavo - ma non chiedetemi di definire cosa si intende con “questo”.
E neppure chiedetemi di raccontarvi per filo e per segno come avvenne il trasferimento dell’apparecchiatura in quel campo di grano maturo.
Sta di fatto che un certo giorno si poteva sentire il vento fischiare passando fra le aste di legno.
E lì, all’aria aperta e sotto la pioggia, distesa sul terreno come un albero abbattuto, l’apparecchiatura di furia mise radici e crebbe talmente che per manovrarla adesso occorreva una forza straordinaria e più disciplinata di quella che poteva fornire il mio braccio, scarso e soggetto ad umori e scatti umani d’insofferenza e tedio.
Così dapprincipio utilizzai un animale monotono come il mulo della Maiella che percorrendo un perimetro ellittico sviluppava lavoro che veniva convogliato verso il fuoco A per accumularsi in un tamburo di contenimento che metteva in moto una catena opportunamente sagomata che ad ogni rivoluzione avvolgeva una spirale elicoidale che svolgendosi poi grazie ad un regolatore a scappamento muoveva un cilindro scorrevole attorno a un asse orizzontale che ingranava il rocchetto di un volante verticale connesso al braccio grafante che così poteva venire condotto per 360 gradi di libertà avanzando o retrocedendo con una sensibilità di tratto assicuratigli da un bilanciere conico a compensazione la cui estremità destra finalmente terminava in una spirale foggiata a guisa di chiocciola flessibile alla quale una sella fotometrica, posta al fuoco B dell’ellisse, assicurava all’erpice calcatore una visione circondariale con elevato potere risolutivo da cui dipendeva il grado di rispondenza (o rifinitezza) grafica.
Ma anche il mulo ben presto risultò avere una testa, ed era piuttosto testarda.
Il cavallo non diede risultati migliori - sebbene infondesse alla riproduzione delle vibrazioni che certo non disdicevano il modello ma neppure lo soddisfacevano.
Tra i successivi aggiustamenti la più importante fu certamente quella di eliminare la catena per sostituirla con un apparato di alimentazione autonomo che, per ingranaggio diretto e con varie trasmissioni a cinghia agiva sulla girella del braccio congiuntamente a una ruota dentata.
Tutto mi persuadeva che occorreva mettere in gioco energie ancora più vigorose ma meno brute. E difatti fu quando venne alimentato dalla forza motrice del vapore che l’intero apparato prese a muoversi liberamente andandosene da solo in cerca dei modelli e dei motivi sopra i quali applicarsi.
Adesso non si lasciava più ingannare dall’infinità delle forme particolari con le quali la natura seduce gli uomini: metteva a nudo l’equivalenza di ogni forma del creato e così la semplicità pura ed esatta di tutte le cose del mondo poteva mostrarsi con la chiarezza e il disincanto di un listino dei prezzi.
Sapevo che oramai tutto stava per compiersi, e io dovevo spingermi più avanti, in cerca di forze motrici sempre più sottili, fino a risalire all'energia come tale, finalmente svincolata da ogni fardello di natura visibile, cioè decorativa.
Mi ingegnai quindi con l'acqua a precipizio e poi col vento, col calore del sole e componendoli tutti insieme.
Quanto più saliva il grado di purezza dell’energia immessa nel processo, altrettanto si alzavano i gradi di finitezza delle riproduzioni, e di pari passo crescevano i gradienti di elasticità e le dimensioni stesse di aste e profilati, di ruote e bilancieri.
Le virtù tutte dell’intero apparato crebbero talmente nell’ineffabile che nessuno osò più neppure vedere l’enormità di quella creatura.
Piuttosto adesso era invece lei a vedere ogni cosa.
E per la prima volta.
Dopo che la baionetta di grafite fu sostituita coi cristalli d’argento, ogni volta che mi avvicinavo, come un disco incantato l’apparato non smetteva di ripetermi: Sciocco. Proprio non vedi che qui non c’è più nulla da vedere?
Lo sibilava maligno, e sempre nel medesimo orecchio; e poi mi derideva, sfidandomi a distogliere la sguardo dalla superficie, dalla quale io ancora m'aspettavo tutto.
Sapevo perfettamente che si stava preparando a saltare, eppure ugualmente sobbalzai di spavento quando un giorno mi urlò nell’orecchio “Ti sei lasciato prendere alle spalle”.
Subito mi voltai, e in un balzo il suo erpice occhiuto raggiunse il faro tra le dune
- percorse le curve dei monti e i bordi dei fiumi
viaggiò per i solchi dei campi arati incontro a nuove arature
si soffermò piacevolmente sulle cime degli alberi per cogliere il fruscio delle foglie e l'effluvio dei gelsomini
indugiò sulle agavi spinose finalmente con abilità di tratto e perfezione di tocco
colorò d'ambra i datteri di Duz e Kebilì
indovinò l'accidentale passaggio delle nuvole su di un volto anonimo sperduto tra la folla di un mercato cittadino
raccolse il lamento di una madre e le sue mani contratte dall'intolleranza dei giudici
mostrò i pori della pelle di un collo di donna e le macchie di vino rosso sulla tovaglia di un tavolo abbandonato dopo una notte di baldoria e di morti cruenti a Chicago
spalancò le gabbie locutive dove irrancidivano le parole e le cose e diede forma perfino all'indicibile luce bianca.
Finalmente libero da ogni impaccio o timidezza umana e troppo umana, quell’apparato pantocratore mi dipinse il mondo piatto come una parabola risolta con me in deliquio incontinente e sbigottito da tanta mirabile ovvietà che in seguito non mi fu più possibile distinguere l’originale dalla copia, e smisi anche di avere paura del mondo reale e delle sue immagini.
Così oggi non ho più bisogno di far nulla per la pittura, seppur mai ne feci.
E se ancora vengo in aula qui tra voi, è solo nell’eventualità che sia la pittura a fare ancora qualcosa per me - oltre a procurarmi la paga ad ogni fine mese.
A tanto è valso infine l’incontro fortuito di una frottola da ragazzi con la pittura.
La lezione è finita.
Andate a casa e riferite tutto ai vostri genitori: potrebbero non gradire affatto la storia della mia maleducazione.
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